Sulle poligamie
Kaikor, luglio 2014
Un classico, caldo pomeriggio Turkana.
Oggi nemmeno il vento si è presentato ad alleggerire l’afa soffocante di questo deserto.
Nell’inconsueto riposino pomeridiano, protetto dalle maglie della mia zanzariera, c’è stato solo un fluire di immagini, di situazioni, sparse fra la vita qui e la mia vita di sempre, nella mia casa, nella mia città…
Una serie di flash che si rincorrevano, cercando un accordo, un punto d’incontro, ma irrimediabilmente rimandavano a due facce della stessa medaglia. Che non saranno mai una.
Mai avrei pensato, né ritenuto possibile, di poter venire qui, nel Turkana, in un deserto così ostile e dimenticato dal mondo, a frequentare un… Master. Di 40 giorni. Sulla poligamia.
E’ una pratica assai diffusa, qui in Kenya, specie tra le popolazioni nilotiche. E’ un fatto culturale, tramandato nei secoli, che ormai sembra essersi fissato nel DNA di questa gente. Poi il maschilismo di certe classi politiche al potere ci mette del suo: lo scorso mese di maggio è stata approvata la legge sulla poligamia. Ora la poligamia è legale, in Kenya. Chiaramente, solo per gli uomini.
Uomini che sposano fino a 10 mogli, talvolta anche più, creando tante famiglie contemporanee e parallele e mettendo al mondo un numero imprecisato e spesso sconosciuto anche a loro stessi di figli. Le donne, sebbene devastate dalle lotte tra diverse mogli e contro diversi figli, si trovano a dover accettare passivamente questa pratica, perché la loro cultura lo impone, e non si può andare contro la cultura, non è nemmeno immaginabile.
Sono 5 anni che frequento questi popoli (Turkana, Masai, Pokhot) e fin dai primi giorni mi sono trovata di fronte a famiglie poligame, con i segni evidenti di una sofferenza repressa sui volti delle mogli.
Non è che, siccome “culturalmente accettata”, faccia meno male.
Me lo hanno detto le donne. Quest’anno. Più d’una. Anche 3-4 al giorno. Di fronte ai loro mariti.
“Roberta, per favore, aiutaci! Mio marito ha altre 3 mogli, ed io sento come una ferita dentro lo stomaco…”.
Bisogna trovarcisi, in certe situazioni, per comprenderne la portata.
Per qualche lunghissimo, interminabile secondo, mi sono sentita spacciata, la prima volta che Rebecca mi ha quasi implorata, con le lacrime agli occhi. Chi ero io, per poterle dare una mano?!? Cosa potevo dire a lei e a Ngimasal, suo marito, per poter lenire il suo dolore? Proprio io, che vengo da un mondo in cui la poligamia è “culturalmente rifiutata”, ma “neanche tanto segretamente” vissuta?… In cui gli uomini sposati non si fanno alcun problema a corteggiare altre donne, portando avanti relazioni che nulla hanno a che fare con l’amore, ma solo (nella migliore delle ipotesi) con il loro fanciullesco narcisismo?
Si sente forse tanto meglio la donna “bianca” tradita a sua insaputa, o quella costretta ad accontentarsi delle briciole, o quella che, non disposta a vivere nell’ambiguità, chiede venga fatta una scelta e si ritrova immediatamente spettatrice di una fuga?
Ecco. Con questo background da vera occidentale, ho dovuto affrontare la poligamia.
Per 40 giorni. Nel deserto.
Sa di biblico…!
Ammetto che la prima sera non mi sono sentita benissimo: credevo di svenire, mi mancavano le forze, mi girava la testa.
Non è banale dare risposte concrete a certe domande, specie quando non hai il tempo di pensare: quegli occhi sono lì, che ti guardano, pieni di tutto il dolore, ma anche di tutta la speranza nelle parole che stai per pronunciare…
Nessuno ti ha insegnato cosa dire, in questi casi: sei da sola, di fronte alle domande della vita, e devi dare le risposte.
Allora provi a metterti nei panni di Rebecca, a pensare di essere tu quella donna che deve dividere l’uomo che ama con altre donne, provi ad immaginare la terribile ferita che sentiresti dentro, se fossi tu a non poter vivere completamente ed esclusivamente la tua esistenza con l’uomo che ami…
E di fronte a quegli occhi imploranti che ti fissano, lucidi, anche i tuoi si riempiono di lacrime, e cominci a provare distintamente quel dolore, e a comprendere come ci si senta…
Solo hai imparato, in tutti questi anni di missione, a non giudicare, a non scagliarti, con tutta la rabbia che potresti avere dentro, contro chi sta facendo soffrire un altro essere umano, ma a tirar fuori tutto l’amore necessario non a giustificare, ma a comprendere. Ho parlato ad entrambi con il cuore in mano, a lui come se fosse il mio uomo, a lei come se fossi di fronte ad uno specchio. Ho tentato di spiegare a lui come si senta una donna in questi casi; e a lei che la “cultura” è creata dai comportamenti umani, e che sta a noi cambiarla, se non rispetta e non ama.
Li ho rincontrati, Rebecca e Ngimasal, un paio di settimane dopo: lui ha deciso di rimanere solo con lei, chiarendo con le altre mogli, continuando a prendersi cura dei loro figli, ma non passando più da un letto all’altro.
Esekon, stamattina, mi ha detto di avere 10 mogli. E’ segno di potere, e di ricchezza. Agnes, la prima delle 10, ha semplicemente fatto un’osservazione: “Lui ha pagato (la dote, n.d.a.) per avermi. Quindi può fare quello che vuole, no?”. Ho chiesto ad Esekon, di fronte ad altre 50 famiglie della sua tribù, cosa proverebbe lui, se fosse Agnes ad avere 10 mariti! Un coro si è levato dalla parte degli uomini: “Assolutamente no!!! Non è una cosa buona! Non ci piace! Non è possibile!”. “Esatto!”, ho detto io, “avete proprio ragione: non è affatto una cosa piacevole. Ma avete mai pensato che anche le vostre mogli, persone come voi, potrebbero provare la stessa, spiacevole sensazione nel vedervi andare con le altre donne?”. Adoro questi primitivi pastori Turkana: un silenzio improvviso è calato sull’emisfero destro della chiesa di paglia e rami costruita intorno al grande albero. Ho percepito distintamente, nello scambio di sguardi che si sono lanciati tra loro, con fare interrogativo, che questa considerazione non li aveva neanche lontanamente sfiorati…!
Li conosco, conosco la loro forza e la loro bellezza. So che ce la faranno.
Comunque, se fossi costretta a scegliere… credo proprio che preferirei la poligamia africana, a quella di casa nostra. Almeno è più onesta. Almeno non si parla d’amore. Almeno non ci si illude.
Niente bugie, tutto palese, alla luce del sole.
Lo stesso sole di questo deserto rovente, che anche a migliaia di chilometri da casa ed in un’era che sembra quella dei miei primitivi avi, continua ad insegnarmi la vita.
Non gli sarò mai grata abbastanza.